Camminando
lungo la Strip, tra lustrini colorati ed insigne al neon, tra la Torre Eiffel e
una Piramide egizia, mi
guardo intorno e ho tante domande:
perché detestavo questo posto e ora mi trovo
felice a
guardare un finto Lago di Como?
Quanto mi hanno cambiato tre anni di America?
Quanto mi hanno cambiato tre anni di America?
E
quale è, alla fine, il senso ultimo di Las Vegas?
Città
di casinò e spogliarelliste, con un mondo in miniatura e chiese immacolate in
cui sposarsi in dieci minuti, Las
Vegas è un parco giochi per adulti, con lampioni-altoparlanti che diffondono
ininterrottamente la voce di Elvis.
Gli
Americani, amanti dell’arte (o del trash?) adorano passeggiare tra il Ponte di
Rialto e la Vittoria Alata, mentre
nei casinò che odorano di sigaro e Pina Colada, croupier stanchi mescolano le
carte, continuando a sorridere.
Torneranno
alle loro case nella luce del mattino, in quelle decine di villette a schiera
alle pendici delle montagne, verso
il deserto del Nevada. I giocatori incalliti invece rimangono lì, attaccati
alle slot machine, fino alla file dei soldi e
dei desideri, sognando il jackpot e forse una casa sul Canal Grande (quello
vero).
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