martedì 20 dicembre 2011

sushi for sale


Inutile discutere di saldi con un newyorkese: vi riderà in faccia. 
Fate la posta a quell’abito in vetrina? Contate i giorni che vi separano dall’ora X? Pura fantascienza. Perché aspettare? Perché soffrire? 
New York è una città fondata sullo shopping e il sacro santo saldo qui c’è tutti i giorni. 
Ogni negozio ha il suo angolo delle occasioni, con capi di appena un mese fa già scontati, a portata di tasca, lontano dalla ressa delle “shopaholic”.
Sogno per il turista votato al risparmio, che striscia la carta e colleziona affari.
Certo si perde in suspense, e i negozianti hanno inventato il saldo “differenziato”: 
scarpe a metà prezzo il lunedì, cappelli e sciarpe 3x2 nei giorni pari, mercoledì “cyber discount” ed il weekend abiti e pochette. 
E il saldo arriva anche in cucina: i ristoranti che hanno necessità di ingredienti freschi ogni giorno, tagliano i prezzi dopo le nove. 
Lunghe file davanti ai locali giapponesi: su un cartello si legge "sushi for sale". 


Pubblicato su A - gennaio 2012

mercoledì 30 novembre 2011

Questioni di mancia



Il Signor Rossi si sente tirar per la giacchetta, li’ fuori dalla porta, mentre si accende una sigaretta. 
Il cameriere col grambiule bianco lo incalza: “Sir, i conti non tornano!” Rossi e’ interdetto: fastidiose questioni di mancia.
Italiano medio di media statura, Rossi esprime un sincero disappunto per questa primitiva usanza: le ‘tips’, non incluse nel conto, arrivano con il dolce, cosi’, a tradimento.
Ma quel che a Rossi sfugge e’ della mancia il valore: economico, sociale, semantico. E’ il prezzo del servizio, metro di giudizio, insindacabile comunicazione: pollice alto per un servizio impeccabile, pollice verso per il maldipancia.
La mancia e’ il valore del lavoro, che qualcuno ha detto, “nobilita l’uomo “. Ma Rossi di questo se ne infischia.
Il cameriere lo riconduce alla cassa, mentre tutto il ristorante si volta a guardare.

mercoledì 23 novembre 2011

L'albero della parrucchiera #3


Un felice Thanksgiving a tutti! 

Anche dall'albero della parrucchiera.

domenica 6 novembre 2011

I volti di OWS

Nessun dorma a Zuccotti Park.
Le tende azzurre non ci sono più, i ragazzi di Occupy Wall Street tornano a casa a passare la notte.
Per due mesi gli indignati americani hanno occupato la piazza, protestando contro corruzione e crisi finanziaria, lobby d’interessi e ricchezza elitaria, creando un fenomeno senza precedenti a New York. Da un rettangolo di cemento questa voce si è espansa in tutto il mondo.
Adesso le cose sono cambiate: gli indignandos non possono più accamparsi e dormire a Zuccotti Park, solo ritrovarsi come semplici passanti che si incontrano e discutono. Ora che le tende sono state sgomberate, assieme ai sacchi a pelo e ai materassi che invadevano la piazza, riusciranno i ragazzi di Occupy Wall Street a continuare la loro protesta pacifica contro l’ingiustizia sociale?
I manifestanti continuano a ritrovarsi sotto i raggi rossi di Joie de Vivre, una scultura in metallo sul lato sud-est di Zuccotti Park. Cala la sera e con essa il silenzio, ma è un silenzio forte, pieno di speranze, il silenzio di chi non si arrende.
Sono le sette e l’Assemblea Generale ha finalmente inizio.
“Mick check! Mick check!” grida una voce. “Prova microfono”, ma qui di microfoni non ce ne sono. La voce di una persona sola, ripetuta e amplificata dalle tante voci di Occupy Wall Street, conquista la piazza. L’eco accende l’atmosfera: “Siamo il 99%!” E’ una spazio democratico questo, senza leader, senza gerarchie.
Ma chi sono questi ragazzi? Chi c’è dietro la voce unanime che ripete senza sosta gli slogan del movimento? Chi si nasconde dietro la maschera di Anonymous?
Dana ha 17 anni, tante lentiggini su un viso pulito, l’aria imbronciata di chi ha già visto un mondo che gira storto.
Ha preso il treno da Patchogue, nella Contea di Suffolk, Queens, ed e’ venuta a Zuccotti Park per rivendicare i propri diritti di liceale. “Voglio prendere parola all’Assemblea Generale, dire basta a privilegi di pochi, a corruzione e iniquità. C’è un insegnamento di serie A e uno di serie B, e la mia educazione ne è penalizzata”. Stasera Dana gridera’ “Mick check” e tutta la piazza, in coro, parlerà con lei.
Sonny se ne sta in disparte, i capelli avvolti in un turbante blu. Ha una laurea in Educazione e Giustizia sociale, si interessa di musica e coesistenza tra popoli.
“Ho subito molte discriminazioni nella vita, ora voglio un mondo più equo. Conduco una lotta non violenta contro il capitalismo e le multinazionali, contro la divisione tra ricchi e poveri, contro ogni forma di prevaricazione, come questo sgombero: noi non ci arrendiamo”.
Sonny non ha mai passato le notti a Zuccotti Park, preferendo tornare a casa. “Ma ogni mattina sono sempre qui, per contribuire fisicamente a questo movimento. Andiamo avanti con la nostra disobbedienza civile”. L’importante è esserci.
Capelli riccioli che spuntano da un cappello calato all’indietro, Alik sembra il ragazzo pulito del Texas, cresciuto tra bufali e prateria. Invece è un ragazzo di Brooklyn, nato non lontano da qui.
A Zuccotti Park lucidava scarpe per racimolare qualche dollaro. Che cosa farà adesso che il villaggio in miniatura degli indignados è stato spazzato via? “Questa e’ stata come una casa per me, mi sono fatto tanti amici e ho trovato qualcuno che puo’ ospitarmi. Ma sono deciso a ritornare qui ogni giorno”.
Il lucido da scarpe e’ sempre li’. Alik parla, discute e fa business a Zuccotti Park. Nel tempo libero protesta.
Avi è un attivista e aspirante scrittore di Honolulu che ha rivestito un ruolo importante nei due mesi di occupazione.
E’ un ‘facilitator’, un arbitro sopra le parti che modera i momenti di discussione. Al tramonto riporta quanto detto all’Assemblea Generale.
“L’Assemblea è il vero momento di incontro del popolo di Occupy Wall Street, un momento necessario, in cui le tante voci di Zuccotti Park si uniscono”.
Alik e Avi, entrambi indignati, appartengono alla stessa piazza, eppure non potrebbero essere più diversi. Rappresentano una contraddizione tutta interna a Occupy Wall Street, che si risolve nella comunione di intenti: continuare la protesta. Forse non si sono neanche mai incontrati.
Avi parla di coesione: “E’ importante che ci sia democrazia di idee: nessun leader, nessuna struttura, non un portavoce. Siamo tutti leader, e così disorientiamo media e autorità”. 
La polizia, infatti, ha incontrato non poche difficoltà a trovare un interlocutore. I tentativi di compromesso politico sono naufragati di fronte al rifiuto di eleggere un portavoce dei manifestanti. Questa impossibilità di confronto è stata una dei fattori che ha convinto il sindaco Bloomberg della necessità di sgomberare. Quando i poliziotti distribuiscono i volantini con le nuove regole e i nuovi divieti, i manifestanti li trasformano in origami.
La protesta di Wall Street, priva di leader e di gerarchie, ha in realtà due fondatori.
Ispirata dalle Primavere Arabe, dall’occupazione di piazza Tahrir al Cairo, e dagli indignados di Madrid, ‘Occupy Wall Street’ nasce dalla mente di David Graeber e di Kalle Lasn.
Antropologo statunitenste con aspirazioni anarchiche, Graeber e’ docente al Goldsmiths College di Londra nonché autore del libro “Debito: I Primi 5,000 Anni”, un’inusuale analisi sullo scambio e sul valore. E’ stato lui a creare lo slogan “We’re the 99%” che unisce sotto un’unica bandiera le proteste di tutto il mondo.
Lasn e’ il fondatore di Adbuster, rivista anticonsumista canadese, che ha lanciato, alla meta’ di Luglio, l’appello ufficiale ad occupare Wall Street. Adbuster ha fissato luogo e data, 17 Settembre, ma e’ stato poi Graeber a guidare il movimento, conducendolo a Zuccotti Park.
Lungo il marciapiede est della piazza i manifestanti alzano cartelli contro i banchieri, quell’1% che dalla crisi ha tratto profitto.
Dietro ad un tavolo coperto di volantini, incontriamo Nathan, un ragazzo del Texas che si è unito alla protesta da poche ore. “Questo sgombero ci ha reso solo più forti”. Nathan è un web designer freelance di scarso successo - colpa della crisi, dice - che si guadagna da vivere con qualche lavoretto qua e là. Dorme nel suo camper per non pagare un affitto che comunque non potrebbe permettersi. Una vita itinerante la sua, da Austin fino a Zuccotti Park. Risponde con disarmante schiettezza alle nostre domande: “Temete l’inverno?” “Nient’affatto, non lasceremo la piazza. Zuccotti Park è un simbolo e noi, che siamo il 99%, apparteniamo a questo posto. New York è il centro nevralgico di questo movimento, ed io volevo esserci”.
Poco distante c’e’ Bill, docente all’Università di Pittsburgh, ora al suo anno sabbatico, confessa di aver avuto qualche perplessità quando il movimento è nato. L’organizzazione nebulosa non prometteva un progetto di lunga durata. “Poi ho visto alcuni video su youtube in cui i poliziotti aggredivano i manifestanti durante la marcia a Times Square. Ho anche guardato il sito web di Occupy Wall Street, ho trovato un programma più definito e ho capito che le intenzioni erano serie. Così ho deciso di unirmi alla protesta”.
A Zuccotti Park, Bill era volontario presso la libreria, un altro piccolo simbolo di autogestione democratica che è stato smantellato assieme alle tende. Stesse sorte è toccata alla mensa, al centro informazioni e alle bancarelle dei vestiti usati.
Dopo un giorno passato tra le voci e le diverse realtà che compongono Wall Street, rimangono però molte questioni irrisolte.
Come verrà indirizzata la protesta ora che la piazza è stata sgomberata? Quale sarà il prossimo passo? E soprattutto: riuscirà Occupy Wall Street a superare l’inverno?
Le voci dei protagonisti di sovrappongono e si mescolano, non riuscendo però ad unirsi in una richiesta chiara, logica, mirata. Un punto di forza, dicono in molti, eppure è la piazza stessa ad accorgersi di come l’indeterminatezza costituisca un pericolo.
“Stasera l’Assemblea cercherà di definire un’agenda” spiega Bill, che forse di tanta pluralità inizia solo adesso a vedere il limite.
Su un solo punto tutti sembrano essere d’accordo: questo è solo l’inizio. 

Photo Credit: Davide Bernardi | www.davidebernardi.it
All images that are Copyright © Davide Bernardi. All rights reserved.


lunedì 24 ottobre 2011

L'albero della parrucchiera #2



Torna l’albero della parrucchiera.
Svestita la gonna awaiana in pagliericcio, si addobba di lugubri festoni, addobbi murtuari, meste decorazioni. Nero come il carbone, arancio come una zucca, una lunga ragnatela lo avvolge, ma e’ solo il fumo che da una scopetta esce, guidata a zig zag da una strega.


La parrucchiera, commossa da una fotografa accanita contro il riverbero del vetro, mi ha invitato ad entrare. Ecco il tesoro che ho trovato:





mercoledì 21 settembre 2011

noveundici


Beverly racconta una storia delicatissima, come il petalo di una rosa dentro al palmo di mano, come la voce di Sean l’ultima volta che l’ha sentito, il modo in cui l’ha immaginato - i capelli ricci la giacca marrone - o i ricordi che si sono scambiati, al telefono, attraverso un filo. Racconta la sorpresa nel sentire la voce di suo marito “così calma e composta”, l’amore che lui ha mostrato fino all’ultimo: “Fa male?” “No.” 
Mentiva.
Hanno scelto di smettere di capire quando hanno capito che non c’era più niente da fare. Hanno scelto di iniziare a ricordare quando l’amore era tutto ciò che rimaneva. 
Davvero. 
La fortuna che avevano avuto nel trovarsi, le vacanze in Europa, le domeniche in bicicletta, quella stanza in affitto. Un armadio blu.

I ricordi sono come ali per volare via, fuori da tutto, dalla morte, dall’ingiustizia, dal dolore, fuori da quel casino, fuori dalla disperazione.

Sono le 9:30 dell’11 settembre 2001 quando squilla il telefono, per la seconda volta. E’ Sean, Beverly e’ felice.
Dura un attimo. 
“Sei fuori?” No. Sono al 105esimo piano.

Davanti al fumo per le scale o ad una porta chiusa sul tetto, Sean rimane calmo, impassibile, lucidissimo. La porta l’ha presa a spallate. “Provaci ancora”, insiste Beverly. E’ inutile. 
Allora si mettono ricordare, anche quando il fumo invade la stanza e i vetri si fanno incandescenti. 
Legati da un filo, mano nella mano, Beverly non piange, non grida; Beverly rimane lì a parlare con Sean, con la forza che solo l’amore e il ricordo le possono dare.



Beverly Eckert e' una delle "vedove" degli attacchi dell'11 Settembre. Nel crollo delle Torri perde il marito Sean, che lavorava all'89esimo piano. 
E' scomparsa anche lei, vittima di un incidente aero avvenuto a Buffalo, NY il 13 Agosto 2009.


PUBBLICATO sul N.39 del 29 settembre 11 di A "Ultima chiamata"  ...più o meno.

martedì 6 settembre 2011

I sogni di Las Vegas


Camminando lungo la Strip, tra lustrini colorati ed insigne al neon, tra la Torre Eiffel e una Piramide egizia, mi guardo intorno e ho tante domande: 
perché detestavo questo posto e ora mi trovo felice a guardare un finto Lago di Como?  
Quanto mi hanno cambiato tre anni di America?
E quale è, alla fine, il senso ultimo di Las Vegas?
Città di casinò e spogliarelliste, con un mondo in miniatura e chiese immacolate in cui sposarsi in dieci minuti, Las Vegas è un parco giochi per adulti, con lampioni-altoparlanti che diffondono ininterrottamente la voce di Elvis.
Gli Americani, amanti dell’arte (o del trash?) adorano passeggiare tra il Ponte di Rialto e la Vittoria Alata, mentre nei casinò che odorano di sigaro e Pina Colada, croupier stanchi mescolano le carte, continuando a sorridere.
Torneranno alle loro case nella luce del mattino, in quelle decine di villette a schiera alle pendici delle montagne, verso il deserto del Nevada. I giocatori incalliti invece rimangono lì, attaccati alle slot machine, fino alla file dei soldi e dei desideri, sognando il jackpot e forse una casa sul Canal Grande (quello vero).
E’ qui, sul tappeto verde di un tavolo da poker, che il sogno americano si infrange.

PUBBLICATO sul N.30 del 28 luglio 11 di A "A qualcuno piace trash"

giovedì 1 settembre 2011

semaforo rosso


Annie aveva calcolato tutto, studiato il percorso, puntato la meta.
Sapeva quanto tempo era necessario per raggiungere il marciapiede, dal deli alla metropolitana.
Questione di attimi, di quella mano rossa che iniziava a lampeggiare.
Se iniziava all'altezza della cassa di arance, si poteva camminare come nulla fosse, indifferenti alle macchine, continuando a leggere il giornale.
Se il rosso scattava all'altezza dei cocomeri, era richiesto un certo slancio, piccola corsetta scomposta, sguardo alto per studiare la traiettoria e scansare i passanti.
Se il semaforo già lampeggiava all'altezza dell'impalcatura, c'era poco da fare: 
impalati, si saltava un turno. Prontezza di riflessi, spirito di osservazione. 
Annie sapeva riconoscere l'arrivo dei treni, dallo spostamento d'aria nella stazione, dal fischio che si incanalava dentro le scale, dalla vibrazione sulla banchina. 
Adesso niente è più come prima. 
I semafori fanno il conto alla rovescia, gli schermi riportano i tempi di arrivo previsti, e un led rosso è più veloce del fischio dei treni.
E' rivoluzione tecnologica nella metropolitana di New York, sconfitta di ritardi, giubilo dei viandanti, vittoria di comodità.
Trionfa la pigrizia, soccombe la fantasia: Annie, di quella cassa di arance sul marciapiede, non sa più che farsene.


mercoledì 31 agosto 2011

Irene [/Ahy-reen/Eye-reen/I-reen]



Il sorriso compiaciuto di chi dice “Bella bufala quella dell’uragano Irene, eh?” perché l’America – si sa – è tutta un grande show.
Nessuna bufala all’appello. Ne’ prima, ne’ durante, ne’ dopo. Perché le bufale nascono, crescono e (si spera) muoiono in un bel paese dall’elegante forma a stivale. 
Forse sapete di chi sto parlando.

Irene è passata da New York, da questa finestra e da questo giardino, quasi inosservata. Al momento di andare a dormire ci siamo attardati a guardar dalla finestra, che forse il risveglio non sarebbe stato lo stesso. Chiedetelo agli amici del New Jersey, a quelli sparsi per Long Beach.
Un risveglio improvviso, veloce e violento: l’uragano? Dove? Il sindaco che parla per l’ultima volta in tv.

Nelle ore accompagnate dal fruscio delle foglie ci si e’ chiesti dove fosse finito, l’uragano.
Gia’ oltre. Ci ha attraversati, superati.  Noi dormivamo.

“Meglio così” rispondevo, riponendo le candele asciutte, l’acqua versata nel lavandino. “E’ l’occhio del ciclone”, qualcuno obietta, luogo in cui il vento non tira. Ma è solo l’ennesima supposizione precauzionale.
Usciamo.
Se del passaggio di Irene rimane poco (ma lo stesso non si può dire per le spiagge del North Carolina, per i paesini del New Jersey, per le case di Rhode Island, per le strade di Westchester, per le persone  - un milione - senza luce a Long Island), la sua attesa, quella resta.

Venerdì una fila lunghissima al supermercato. Venerdì, centinaia di persone ad aspettare un treno, hanno fretta di tornare a casa, penso. Venerdì leggo un titolo sui giornali italiani, a cui segue un video sempre italiano: quanto basta perché io mi riprometta di non cercare più quelle fonti fino a quando l’urgano non sarà passato. Eppure venerdì il sole splende.

Il cielo è plumbeo quando ci risvegliamo sabato, il vento arriva da lontano, ha un giro diverso, un profumo tropicale, s’alza.
“Andiamo a fare la spesa”, ed è vero, il pane e l’acqua finiscono presto, ma non si vedono in giro scene di panico, bensì di solidarietà:
“Dove ha preso quella pasta?” “Nel corridoio in fondo – aspetti, gliela porto io”.
“Lo zucchero sa se ce n’è ancora?” “No, è finito, ma prenda un po’ del mio, io ne ho abbastanza”.
I newyorkesi non sembrano preoccupati, eppure escono tutti con il carrello, per comprare di più. Si fermano a parlare, dicono non sarà poi così grave, ma hanno sorrisi mesti, sono silenziosi. Si va alla ricerca di candele, di torce, di cibo-in-scatola e apri lattine.

Quando un temporale estivo - uno dei tanti – esplode inaspettato, la gente si mette a correre veloce. Tutti pensano che sia arrivato. 
E sono solo le undici di mattina.

Avanti e indietro, tra i negozi e la casa, sgomberando davanzali e terrazzini. Qualcuno mette dello scotch a forma di stella alle finestre. Io no, il New York Times dice che  e' inutile.
Un sabato veloce e lento, allegro e triste. Un sabato del villaggio, dolce e rassegnato. Le ore non sono scandite dalle consuetudini, ma diventano tutte uguali in una interminabile attesa, nella distanza che separa noi e l’uragano. Noi e il nemico. Come una sagoma su una montagna, come un tornado al di là del mare. Il vento potrebbe rompere i timpani, l’acqua entrare dal tetto, la luce farsi buio, e le finestre esplodere in mille schegge sul pavimento. Sta venendo qui. Adesso. Domani.
Paura: un po’. Preparazione: tanta.

La mattina dopo, l’uragano non arriva. Il vento soffia parallelo alle finestre, ci abbraccia e non bussa. Irene passa e ci lascia un senso di incompiuto, una tensione allentata che non trova sfogo.
Si esce, si va a guardare il vento forte nel cielo grigio, gli alberi caduti. Si ripensa alle ore passate.


Il giorno dopo è quello della polemica, ma non a New York.
Forse per qualche repubblicano stanco, pronto ad attaccare il Presidente o le scelte drastiche del Primo Cittadino.
Ma i newyorkesi, come gli abitanti degli altri quindici Stati coinvolti, non mostrano risentimento, non alzano la voce. L’America è questa, e questa è la posta in gioco.

Il vento di polemica tira da un’altra parte. Da quella stessa parte in cui soffiava quello gratuito dello spavento.
Il vento della cattiva informazione che viene da oltreoceano. Il vento dell’audience. Spaventa e non da’ una soluzione. Se sente la puzza, polemizza. “L’America: esagera sempre!”, dice. Ma chi?

Sul New York Times del 30 Agosto 2011 (due giorni dopo il passaggio dell’uragano Irene, declassato a tempesta tropicale) la “citazione del giorno” da voce a Peter Shumlin, Governatore dello Stato del Vermont:

What you see is farms destroyed, crops destroyed, business underwater, houses eroded or swept away and wide-spread devastion.

I turisti italiani in vacanza a New York – congenitamente vicini alle espressioni comunicative del loro paese - si sono detti delusi dalla prestazione dell’uragano Irene, tacciando gli Americani di aver messo in piedi un sistema allarmistico volto a favorire solo gli affari d’oro dei loro supermercati. Laddove si incolpa l’America di volgere tutto, dal dramma alla gioia, in spettacolo, il metro di giudizio italiano si inganna e forse, in verità, si contraddice. Ventiquattrore di diretta, un’informazione precisa e dettagliata, ha permesso a milioni di americani di sapere cosa aspettarsi, preparandoli e rassicurandoli. I giornali italiani, con una sete di sensazionalismo votato, purtroppo, alla disinformazione, non hanno sortito lo stesso effetto. Ero io, sotto i venti di tempesta, a rassicurare chi, dall’Italia, chiamava. 
Le conferenze di Bloomberg sono state definite “drammatiche” dai giornalisti italiani, eppure i toni di serietà, controllo e un pizzico di ironia emergevano chiari a chi sapeva ascoltarli.

“Better safe than sorry” e’ un detto americano che spiega perfettamente le precauzioni prese. 
L’Italia prima allarma, poi polemizza: never safe, never sorry.


domenica 28 agosto 2011

L'anello del potere


Molte erano le cose di cui parlare. 
L’ironia della location: una macchina elettorale che sceglie l’IOWA e in particolare Waterloo come punto di partenza. 
Gli straw poll e i tayerini di Mrs. Bachmann. Le dimissioni di Tim Pawlenty, che ritira candidatura e camicie a quadri dai dibatti repubblicani. La crisi economica, le difficolta’ di Obama, quei capelli bianchi in pochi anni e un bus-tour che attaversa il Midwest a ritmo di U2.
O ancora la grande personalità’ di Romney, ex mormone missionario, ex governatore del Massactustes, fino a pochi giorni fa papabile successore nello studio ovale. 
Eppure, di tutti i resoconti, un aspetto piu’ degli altri mi colpiva. 
Un anello, abominevole obbrobrio placcato oro, al dito anulare del governatore del Texas, Rick Perry. 
Pugno sferrato in un occhio, simbolo di appartenenza universitaria o forse, come ironizza qualcuno, teschio di bisonte texano.
Perry lo sfoggia con disinvoltura, emblema di quell’America bianca che Obama pare aver perduto.
A piu’ di quattordici mesi dalle elezioni, nella politica-spettacolo che la macchina elettorale americana mette in moto, quell’anello e’ un magnete, che attira e al tempo spaventa: potrebbe un papabile Presidente americano andare in giro così??



Intanto un'altra campana repubblicana suona. E' quella delle evangelica Michele Bachmann, che afferma che l'uragano Irene non e' stato altro che un messaggio "politico" di Dio. 

“I don’t know how much God has to do to get the attention of the politicians. We’ve had an earthquake; we’ve had a hurricane. He said, ‘Are you going to start listening to me here?’ "

All right.

lunedì 15 agosto 2011

L'albero della parrucchiera #1

Il parrucchiere vicino casa, in occasione della stagione estiva, ha allestito, come di consueto, la vetrina esterna di molta fantasia.
L'abete in plastica e' così diventato, sotto il sole giallo dell'agosto, una coloratissima signorina hawaiana, che dal vetro ammicca al caldo della strada.
Di ogni mese si fa premura, il parrucchiere per ogni stagione: neve d'inverno, paglia di puglia, code di rospo dall'andalusia.


buon ferragosto!

martedì 2 agosto 2011

A long long beach


Il mio posto al sole e’ Long Beach, lingua di terra irregolare che sfacciatamente guarda verso l’Atlantico.
Accendervi non costa nulla e il vantaggio e’ un panorama colorato di ombrelloni. 
E’ una spiaggia multirazziale: americani, coreani, italiani e russi che cercano refrigerio da una City bollente.
La sabbia e’ finissima e si sposta al vento, grigia come cenere di sigaretta caduta al tramonto. Su dei cucuzzoli di sabbia svettano i bagnini, spavaldi e fieri, con la tavoletta rossa che pare un siluro. Niente a che vedere con i colleghi di Santa Monica, che hanno a disposizione casette di legno colorate e sofisticati cannocchiali per scrutare l’orizzonte. 
I newyorkesi fischiano rumorosamente contro i bagnanti indisciplinati e si affannano in gesti vigorosi, come vigili urbani, comandando di guadagnare la riva.
Io guardo le montagnola di sabbia e vorrei far loro uno scherzo: impugnare la paletta, andar quatta quatta sul retro e silenziosa mettermi a scavare, che il bagnino, la tavoletta-siluro e il fastidioso fischietto cadessero giù, in un gran tonfo, sulla sabbia fine come cenere di sigaretta. 
Ma non si può, e mi limito a guardarli, mentre il sole si nasconde dietro New York e i gabbiani lasciano buffe impronte sul bagnasciuga.


PUBBLICATO sul N.33 del 11 agosto 11 di A "Bagnini senza pietà" ...più o meno.

sabato 9 luglio 2011

Echo


Avete visto il fantasma di Warhol a Union Square? Solo qualche isolato piu’ a nord spunta un’altra figura spettrale. Non e’ esuberante come il Re dell’Arte Pop nel suo abito cromato, bensi’ algida e marmorea come una montagna innevata.
E’ Echo, la prima opera newyorkese del celebre scultore catalano Jaume Plensa.
Plensa e’ noto per la realizzazione di sculture dal forte impatto spaziale ed emotivo. Echo e’ ad oggi l’opera scultora di maggiori dimensioni ad avere occupato l’oval loan di Madison Square park.

Ma non e’ la maestosita’ bensi’ la “dimensione” emotiva a sorprendere di piu’.
Echo e’ una bambina spagnola di nove anni, assorta nelle proprie fantasie e nei propri sogni. Plensa si e’ inspirato alla figlia del proprietario di un ristorante cinese di Barcellona, situato vicino allo studio dell’artista.
Nonostante le dimensioni imponeneti (12 metri in resina di fibra di vetro, coperta da polvere di marmo) la tranquillita’ del volto si irradia tutt’intorno, dagli alberi al prato, dalle automobili ai grattacieli, fino a raggiungere lo spettatore che incantato la osserva.
E’ un messaggio di serenita’, di pace e armonia.
L’opacita’ della superficie e la forma morbida conferiscono il carattere “spettrale” alla scultura, quasi effimero, facendola apparire come un’ologramma di luce proiettato nel giardino. E qui si svela la brillante intuizione di Plensa: conferire ad una scultura marmorea, alta quanto un palazzo, il dono della leggerezza.
Echo sembra addormentata, lontana dalla frenesia della citta’. Il tempo si ferma, e lo spettatore la insegue, libero in questo gioco dimenticato.

Echo e’ anche un riferimento alla mitologia greca: la ninfa, nota per la sua curiosita’, venne privata dell'uso della parola e condannata a ripetere solo le ultime parole udite.
La Echo di Plensa in silenzio, con gli occhi chiusi, rimane in ascolto dei rumori che avvolgono la citta’, dei sussurri, quasi dei pensieri dei passanti che si fermano a guardarla. Li custodisce e li restituisce, inducendo nello spettatore un coinvolgimento tale da farlo rimanere a lungo in silenziosa introspezione.
L’obiettivo e’ restituire alle persone consapevolezza della propria voce interiore. Dice Plensa:
“Molte volte parliamo e parliamo, senza chiederci se usiamo parole nostre o ripetiamo solo messaggi nell’aria. La mia intenzione e’ offrire qualcosa di talmente bello da stimolare una reazione immediata nelle persone, in modo tale che si chiedano “Cosa sta accadendo?”, e in questo modo, interrogandosi, possono dare ascolto a loro stessi.”

Plensa abbandona il linguaggio astratto, frequente nell’arte moderna e contemporanea, per attingere invece alla vita di tutti i giorni, ed in particolare alle  persone comuni.
A renderlo un artista di fama internazionale e’ stata l’installazione “Crown Fountain” al Millennium Park di Chicago, dove due grandi teleschermi, collegati da una vasca, proiettano volti degli abitanti di Chicago. C’e’ chi sorride, chi sgrana gli occhi, chi osserva. Poi all’improvviso le labbra si uniscono e nasce una fontana, che rende cosi’ i volti umani non solo oggetto ma anche agenti dell’installazione.

Per la realizzazione di Echo, Plensa si e’ avvalso di programmi grafici e alta tecnologia. Dapprima ha realizzato delle fotografie digitali in formato tridimensionale, successivamente ha modificato i tratti del soggetto, eliminando i connotati caratteristici e rendendolo maggiormente iconico. Un macchinario ha prodotto il modello in plastica, poi il prototipo e infine la scultura.
Echo e’ composta di 15 pezzi realizzati in Spagna e assemblati su un’ impalcatura di metallo. E’ la stessa tecnica utilizzata dagli antichi romani nella costruzione delle colonne: numerose lastre unite da un sottile filo di piombo.
Molte delle persone che hanno lavorato con Plensa hanno riscontrato non pochi problemi tecnici per la realizzazione del progetto, ma Plensa ha sempre risposto serafico “ci penseremo dopo”.
Questa calma apparente racchiude in realta’ un messaggio caro a Plensa: “La tecnica puo’ diventare un’ostacolo se pensata in anticipo. Per prima cosa e’ necessario sognare. Poi si trova la soluzione”.
Perche’ “quando sogni, tutto diventa possibile”.