Il mio posto al sole e’ Long Beach, lingua di terra irregolare che sfacciatamente guarda verso l’Atlantico.
Accendervi non costa nulla e il vantaggio e’ un panorama colorato di ombrelloni.
E’ una spiaggia multirazziale: americani, coreani, italiani e russi che cercano refrigerio da una City bollente.
La sabbia e’ finissima e si sposta al vento, grigia come cenere di sigaretta caduta al tramonto. Su dei cucuzzoli di sabbia svettano i bagnini, spavaldi e fieri, con la tavoletta rossa che pare un siluro. Niente a che vedere con i colleghi di Santa Monica, che hanno a disposizione casette di legno colorate e sofisticati cannocchiali per scrutare l’orizzonte.
I newyorkesi fischiano rumorosamente contro i bagnanti indisciplinati e si affannano in gesti vigorosi, come vigili urbani, comandando di guadagnare la riva.
Io guardo le montagnola di sabbia e vorrei far loro uno scherzo: impugnare la paletta, andar quatta quatta sul retro e silenziosa mettermi a scavare, che il bagnino, la tavoletta-siluro e il fastidioso fischietto cadessero giù, in un gran tonfo, sulla sabbia fine come cenere di sigaretta.
Ma non si può, e mi limito a guardarli, mentre il sole si nasconde dietro New York e i gabbiani lasciano buffe impronte sul bagnasciuga.
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