mercoledì 31 agosto 2011

Irene [/Ahy-reen/Eye-reen/I-reen]



Il sorriso compiaciuto di chi dice “Bella bufala quella dell’uragano Irene, eh?” perché l’America – si sa – è tutta un grande show.
Nessuna bufala all’appello. Ne’ prima, ne’ durante, ne’ dopo. Perché le bufale nascono, crescono e (si spera) muoiono in un bel paese dall’elegante forma a stivale. 
Forse sapete di chi sto parlando.

Irene è passata da New York, da questa finestra e da questo giardino, quasi inosservata. Al momento di andare a dormire ci siamo attardati a guardar dalla finestra, che forse il risveglio non sarebbe stato lo stesso. Chiedetelo agli amici del New Jersey, a quelli sparsi per Long Beach.
Un risveglio improvviso, veloce e violento: l’uragano? Dove? Il sindaco che parla per l’ultima volta in tv.

Nelle ore accompagnate dal fruscio delle foglie ci si e’ chiesti dove fosse finito, l’uragano.
Gia’ oltre. Ci ha attraversati, superati.  Noi dormivamo.

“Meglio così” rispondevo, riponendo le candele asciutte, l’acqua versata nel lavandino. “E’ l’occhio del ciclone”, qualcuno obietta, luogo in cui il vento non tira. Ma è solo l’ennesima supposizione precauzionale.
Usciamo.
Se del passaggio di Irene rimane poco (ma lo stesso non si può dire per le spiagge del North Carolina, per i paesini del New Jersey, per le case di Rhode Island, per le strade di Westchester, per le persone  - un milione - senza luce a Long Island), la sua attesa, quella resta.

Venerdì una fila lunghissima al supermercato. Venerdì, centinaia di persone ad aspettare un treno, hanno fretta di tornare a casa, penso. Venerdì leggo un titolo sui giornali italiani, a cui segue un video sempre italiano: quanto basta perché io mi riprometta di non cercare più quelle fonti fino a quando l’urgano non sarà passato. Eppure venerdì il sole splende.

Il cielo è plumbeo quando ci risvegliamo sabato, il vento arriva da lontano, ha un giro diverso, un profumo tropicale, s’alza.
“Andiamo a fare la spesa”, ed è vero, il pane e l’acqua finiscono presto, ma non si vedono in giro scene di panico, bensì di solidarietà:
“Dove ha preso quella pasta?” “Nel corridoio in fondo – aspetti, gliela porto io”.
“Lo zucchero sa se ce n’è ancora?” “No, è finito, ma prenda un po’ del mio, io ne ho abbastanza”.
I newyorkesi non sembrano preoccupati, eppure escono tutti con il carrello, per comprare di più. Si fermano a parlare, dicono non sarà poi così grave, ma hanno sorrisi mesti, sono silenziosi. Si va alla ricerca di candele, di torce, di cibo-in-scatola e apri lattine.

Quando un temporale estivo - uno dei tanti – esplode inaspettato, la gente si mette a correre veloce. Tutti pensano che sia arrivato. 
E sono solo le undici di mattina.

Avanti e indietro, tra i negozi e la casa, sgomberando davanzali e terrazzini. Qualcuno mette dello scotch a forma di stella alle finestre. Io no, il New York Times dice che  e' inutile.
Un sabato veloce e lento, allegro e triste. Un sabato del villaggio, dolce e rassegnato. Le ore non sono scandite dalle consuetudini, ma diventano tutte uguali in una interminabile attesa, nella distanza che separa noi e l’uragano. Noi e il nemico. Come una sagoma su una montagna, come un tornado al di là del mare. Il vento potrebbe rompere i timpani, l’acqua entrare dal tetto, la luce farsi buio, e le finestre esplodere in mille schegge sul pavimento. Sta venendo qui. Adesso. Domani.
Paura: un po’. Preparazione: tanta.

La mattina dopo, l’uragano non arriva. Il vento soffia parallelo alle finestre, ci abbraccia e non bussa. Irene passa e ci lascia un senso di incompiuto, una tensione allentata che non trova sfogo.
Si esce, si va a guardare il vento forte nel cielo grigio, gli alberi caduti. Si ripensa alle ore passate.


Il giorno dopo è quello della polemica, ma non a New York.
Forse per qualche repubblicano stanco, pronto ad attaccare il Presidente o le scelte drastiche del Primo Cittadino.
Ma i newyorkesi, come gli abitanti degli altri quindici Stati coinvolti, non mostrano risentimento, non alzano la voce. L’America è questa, e questa è la posta in gioco.

Il vento di polemica tira da un’altra parte. Da quella stessa parte in cui soffiava quello gratuito dello spavento.
Il vento della cattiva informazione che viene da oltreoceano. Il vento dell’audience. Spaventa e non da’ una soluzione. Se sente la puzza, polemizza. “L’America: esagera sempre!”, dice. Ma chi?

Sul New York Times del 30 Agosto 2011 (due giorni dopo il passaggio dell’uragano Irene, declassato a tempesta tropicale) la “citazione del giorno” da voce a Peter Shumlin, Governatore dello Stato del Vermont:

What you see is farms destroyed, crops destroyed, business underwater, houses eroded or swept away and wide-spread devastion.

I turisti italiani in vacanza a New York – congenitamente vicini alle espressioni comunicative del loro paese - si sono detti delusi dalla prestazione dell’uragano Irene, tacciando gli Americani di aver messo in piedi un sistema allarmistico volto a favorire solo gli affari d’oro dei loro supermercati. Laddove si incolpa l’America di volgere tutto, dal dramma alla gioia, in spettacolo, il metro di giudizio italiano si inganna e forse, in verità, si contraddice. Ventiquattrore di diretta, un’informazione precisa e dettagliata, ha permesso a milioni di americani di sapere cosa aspettarsi, preparandoli e rassicurandoli. I giornali italiani, con una sete di sensazionalismo votato, purtroppo, alla disinformazione, non hanno sortito lo stesso effetto. Ero io, sotto i venti di tempesta, a rassicurare chi, dall’Italia, chiamava. 
Le conferenze di Bloomberg sono state definite “drammatiche” dai giornalisti italiani, eppure i toni di serietà, controllo e un pizzico di ironia emergevano chiari a chi sapeva ascoltarli.

“Better safe than sorry” e’ un detto americano che spiega perfettamente le precauzioni prese. 
L’Italia prima allarma, poi polemizza: never safe, never sorry.


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